Lavori In Corso
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Ma cos'è lavorare? De L'argent di Charles Peguy.
«Dobbiamo ammetterlo, noi siamo stati cresciuti all’interno di un popolo contento. Una volta, un cantiere era un posto della terra dove gli uomini erano contenti. Oggi un cantiere è un luogo della terra dove gli uomini recriminano, pretendono, si battono, si scontrano. Ai miei tempi tutto il mondo cantava. Nella maggioranza dei mestieri si cantava. Oggi ci si arrabbia. A quei tempi si guadagnava per così dire niente. I salari erano di una pochezza da non avere l’idea. E nondimeno tutto il mondo cresceva. Nelle case più umili c’era una grazia di cui si è perduto il ricordo. In fondo non si calcolava e nemmeno si doveva calcolare. E si poteva tirar grandi i figli. E si era tirati grandi. Era sconosciuta questa atroce forma di strangolamento che oggi ci torce ogni anno di più. Non si guadagnava; non si spendeva; e tutti vivevano. Era sconosciuta questa stretta economica di oggi, questo strangolamento scientifico, freddo, rettangolare, regolare, costumato, netto, (…) una stretta in cui si è presi senza che si abbia nulla da ridire e dove chi è strangolato ha l'aria di avere così palesemente torto. (…) Lo si creda o no, fa lo stesso, abbiamo conosciuto operai che avevano voglia di lavorare. Non pensavano ad altro che a lavorare. Noi abbiamo conosciuto operai che al mattino non pensavano ad altro che a lavorare. Si alzavano al mattino, e di buon’ora, e cantavano all’idea che potevano lavorare. A mezzogiorno cantavano andando a mensa. (…) Nella maggior parte dei laboratori si cantava. Oggi si sbuffa. (…) Andavano, cantavano. Lavorare era la loro gioia, e la radice profonda del loro essere. E la ragione del loro essere. Stimavano incrollabilmente il lavoro, il più bello di tutti gli onori, il più cristiano, il solo che si poteva vantare. (…) Noi abbiamo conosciuto un onore del lavoro esattamente eguale a quello che nel medio evo governava la mano e il cuore. Era lo stesso conservato intatto fino a noi. Noi abbiamo conosciuto un’attenzione fino alla ricerca della perfezione, sia nell’insieme, che nei più piccoli dettagli. Noi abbiamo conosciuto questa pietà dell’opera ben fatta, adeguata, soppesata a tenere conto delle necessità più estreme. Durante tutta la mia infanzia io ho visto impagliare sedie con lo stesso spirito, lo stesso cuore e la stessa mano, con cui lo stesso popolo aveva costruito le sue cattedrali. Cosa resta oggi di tutto questo? Il popolo più laborioso della terra e forse il solo popolo laborioso della terra, forse il solo popolo che amava il lavoro per il lavoro, e per l’onore, e per lavorare, è diventato un popolo di sabotatori, un popolo che mettendo tutto il proprio impegno nell’opera non riesce a lasciare una traccia. Questa sarà nella storia una delle più grandi vittorie, senza dubbio la sola della demagogia borghese intellettuale. Ma si deve ammettere che è una speculazione. Questa vittoria. (…)
Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura. Una tradizione venuta, risalita dal profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali.

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E sono solo io - io ormai così imbastardito - a farla adesso tanto lunga. Per loro, in loro non c’era allora neppure l’ombra di una riflessione. Il lavoro stava là. Si lavorava bene. Non si trattava di essere visti o di non essere visti. Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto.
Un sentimento incredibilmente profondo che oggi definiamo l’onore dello sport, ma a quei tempi diffuso ovunque. Non soltanto l’idea di raggiungere il risultato migliore possibile, ma l’idea, nel meglio, nel bene, di ottenere di più. Si trattava di uno sport, di una emulazione disinteressata e continua, non solo a chi faceva meglio, ma a chi faceva di più; si trattava di un bello sport, praticato a tutte le ore, da cui la vita stessa era penetrata. Intessuta. Un disgusto senza fine per il lavoro mal fatto. Un disprezzo più da gran signore per chi avesse lavorato male. Ma una tale intenzione nemmeno li sfiorava. Tutti gli onori convergevano in quest’unico onore. Una decenza, e una finezza di linguaggio. Un rispetto del focolare. Un senso di rispetto, di ogni rispetto, dell’essenza stessa del rispetto. Una cerimonia per così dire costante. D’altra parte, il focolare si confondeva ancora molto spesso col laboratorio e l’onore del focolare e l’onore del laboratorio erano il medesimo onore. Era l’onore del medesimo fuoco. Cosa mai è divenuto tutto questo. Ogni cosa, dal risveglio, era un ritmo e un rito e una cerimonia. Ogni fatto era un avvenimento, consacrato. Ogni cosa era una tradizione, un insegnamento; tutte le cose avevano un loro rapporto interiore, costituivano la più santa abitudine. Tutto era un elevarsi, interiore, e un pregare, tutto il giorno: il sonno e la veglia, il lavoro e il misurato riposo, il letto e la tavola, la minestra e il manzo, la casa e il giardino, la porta e la strada, il cortile e la scala, e le scodelle sul desco. Dicevano per ridere, e per prendere in giro i loro curati, che lavorare è pregare, e non sapevano di dire così bene.» (Charles Peguy, L'argent, 1913-02-16, Ed. Gallimard, 1932, pp 11-15. — La versione italiana, Il denaro, è stata pubblicata da Edizioni Lavoro, 1991)

Imagenes:

  • Fernand Léger, Albañilos con soga, 1950.
  • Albañilos de catedrales, Salterio de Canterbury, XIII sec
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